È passato un anno dalla dichiarazione di indipendenza del Kosovo e la città di Mitrovica continua a demarcare un confine con una profonda portata simbolica. Un confine lungo il corso di un fiume, l’Ibar, un confine che si identifica, se così possiamo dire, in un ponte. I paradossi dei confini, dove i ponti sono luoghi di conflitto e di contrapposizione invece che di legame e di unione.
Mitrovica è una città divisa, divisi sono due popoli, due culture, due mondi. Una città che vive su questa contrapposizione, con mezza città che guarda a nord, verso la Serbia, e l’altra metà che guarda a sud, verso il Kosovo. Apparentemente senza grandi scontri, ma con una tensione latente, con una preoccupazione quasi nascosta, per una popolazione che ha visto momenti ben più duri e ben più conflittuali per prendere paura delle bombe che ogni tanto vengono fatte esplodere presso gli edifici sedi della comunità internazionale.
Il ponte di Mitrovica forse non è famoso come il ponte di Mostar, anche perché si tratta di un manufatto moderno, modernissimo, senza alcuna portata storica di rilievo. Eppure, molto più del ponte di Mostar è il luogo della contrapposizione (il ponte di Mostar è un simbolo fortissimo, ma lì il vero confine della città divisa è il Boulevard e non la Neretva). Tanto simbolico come luogo della divisione che il presidio militare è costante e la base NATO è in pratica sul ponte. Tutta la vita cittadina, protesa per le questioni della vita quotidiana in direzioni opposte (nord e sud appunto), tende verso il ponte quando è in gioco il presente e il futuro delle identità contrapposte.
La portata simbolica è dimostrata dal fatto che mentre sul quel ponte il passaggio può essere complicato se non vietato in momenti di tensione, si passa sempre liberamente e in pratica senza alcun presidio o controllo per un altro piccolo ponte, quasi una passerella, posta a poca distanza dal ponte principale.
Che siano due mondi non è solo un modo di dire: le due metà sembrano vivere due vite diverse, come se fossero a centinaia di chilometri l’una dall’altra. Passando quel ponte di pochi metri cambiano gli edifici, cambia il paesaggio, cambia la musica, oltre ovviamente alla lingua, ai luoghi di culto, alle bandiere. La moschea nella piazza di Mitrovica sud, la cattedrale ortodossa sulla collina a Mitrovica nord. La musica con influenze turche e mediorientali a sud, il rock balcanico a nord.
Eppure Mitrovica presenta una complessità, tipica di una città, per la quale i confini fisici e culturali sono poco rispondenti ad una eterogeneità che sul terreno è molto più marcata di quanto si possa credere. Così a Mitrovica nord ci sono i quartieri albanesi (riconoscibili dalle case basse e dalla forma dei tetti), c’è la presenza di altre minoranze (bosniaca e turca ad esempio) spesso dimenticate, come in tutte le politiche e le riflessioni sulla questione Kosovo, e infine c’è il campo rom, che ospita una comunità quasi sempre vittima delle guerre qualunque siano le parti confliggenti.
Mitrovica vive come sospesa, intorno a quel ponte, simbolo forse anche figurato di un passaggio che non si vuole o non si può fare. Dopo un anno si potrebbe dire che Mitrovica vive la normalizzazione di una divisione de facto, che solo a parole si continua a negare. Una realtà bloccata, seppure viva, che da entrambe le parti chiede sviluppo più che parole. Anche se, a mio parere, qualunque sia il futuro di Mitrovica, sarebbe un errore grave abbandonare il dialogo come strumento di intervento.
chissa’ quando l’onu se ne va…
forse il peggio lo dobbiamo ancora vedere..