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Il muro dell’Evros

Ne abbiamo parlato in un post qualche tempo fa, come uno dei nuovi muri d’Europa. Il confine tra Grecia a Turchia lungo il fiume Evros è uno dei principali punti di passaggio dei migranti che vogliono entrare in Europa.

Osservatorio Balcani Caucaso ha pubblicato un reportage molto interessante che vi segnalo (questo il link). Ecco l’introduzione su OBC: “Sono otto dall’inizio dell’anno e 24 nel 2011 i migranti che hanno perso la vita mentre cercavano di attraversare il confine turco-greco segnato dal fiume Evros che è punto d’ingresso privilegiato per i migranti che tentano di raggiungere l’Europa. Video reportage di Alberto Tetta

“L’imbuto” di Neum è sempre stato un punto critico per tutti quelli che si dirigono verso Dubrovnik lungo la strada costiera della Dalmazia: per alcuni un incubo, per le lunghe code estive, spesso una scocciatura, per chi deve attraversare due controlli di confine senza in fondo voler entrare in un altro paese, per tanti una curiosità, questa striscia di costa bosniaca che taglia la costa croata.

Neum è l’unica città della Bosnia Erzegovina sul mare, e i suoi 25 km di costa rappresentano lo sbocco al mare dello stato bosniaco. Un breve tratto di costa che di fatto interrompe, e divide, la costa della Croazia, e costringe appunto a controlli di confine anche chi è solo di passaggio.

Varie proposte, soprattutto da parte croata,sono emerse negli anni con l’intento di risolvere questo “problema” e bypassare la Bosnia. A lungo la soluzione maggiormente probabile è stata la costruzione di un ponte che collegasse la Penisola croata di Pelješac alla costa (il cosiddetto Pelješac Bridge).

Sembra proprio che  questo “nodo” verrà finalmente risolto, e dove non ha potuto la volontà politica, ora può la crisi economica. Il citato ponte infatti sarebbe costato circa 300 milioni di euro, e la Croazia ha abbandonato l’idea proprio per l’insostenibilità economica dell’opera. Pochi giorni fa infatti rappresentanti della Bosnia Erzegovina e della Croazia hanno trovato un accordo sulla questione (come riportato da Balkan Insight), e hanno deciso di costruire un breve tratto di autostrada che passa in territorio bosniaco, alle spalle di Neum, che permette di non dover “uscire”, e quindi di proseguire la strada senza controlli di frontiera, a chi desidera continuare verso il sud della Croazia (vedi le dichiarazioni dei Ministri dei due paesi).

Come riporta un articolo de Il Piccolo che dà anche altri particolari (tra i quali una riunione prevista per il 3 maggio), questo accordo, su 18 km di autostrada, rientrerà in un più ampio accordo tra i due paesi, anche in vista dell’entrata nella UE della Croazia.

Riporto un post pubblicato oggi da Luca Leone, una bellissima descrizione della Sarajevo di oggi. Chi mi consoce sa che io sono critico su come sia cambiata e stia cambiando Sarajevo dopo il conflitto, ma Luca mi spinge sempre a vedere i lati belli di una città che rinasce, che bisogna sostenere per il significato che ha e che bisogna “abitare” guardando al futuro. Questo testo è una sorta di dichiarazione d’amore, da una persona che conosce benissimo Sarajevo e che ci invoglia a tornare a Sarajevo.

24/04/2012. La Sarajevo di oggi, di Luca Leone giornalista, autore di libri (tra cui Saluti da Sarajevo), editore (testo di ©Luca Leone 2012 e disponbile su www.infinitoedizioni.it).

Sono così tante le parole che il suo solo nome, Sarajevo, evoca e fa venire alla mente, da rendere arduo il metterle in fila e farle uscire dalla bocca, una per una.

Sarajevo è città dolce e spigolosa, aperta e ostinata, urbana e contadina, mistica e pervicacemente laica. È da sempre residenza e ispirazione per letterati, artisti, grandi poeti e immensi teatranti. È sede di commerci e viandanti che s’incontrano nei caravanserragli di ieri e d’oggi. È luogo degli opposti, in cui le diversità da oltre mezzo millennio s’incontrano, mescolano e convivono in serenità e armonia.

Il suo nome stesso – Sarajevo – è simbolo di simbiosi e ibridazione tra due culture ancor prima che queste s’incontrassero e si fondessero tra loro. La parola saraj è infatti turca e sta a testimoniare la radice ottomana della fondazione di Sarajevo. Il primo governatore (bej) turco di Sarajevo fu Isa-Beg Isaković, l’uomo che aveva conquistato nel 1463 la nuova provincia ottomana di Bosnia e che da subito dette il via all’edificazione della sua residenza e futuro palazzo del potere, appunto il saraj, che prese il nome di Konak. Saraj è dunque termine turco utilizzato per descrivere un palazzo fortificato al cui interno si svolgessero mansioni governative o amministrative. Il nome slavo della città era invece Saraje Ovasi, traducibile come “castello in pianura”. I primi Slavi erano giunti laddove sorge oggi Sarajevo intorno al 500 dopo Cristo. Il suffisso “evo” del nome della città deriva proprio da ovasi e la fusione dei due termini determinò la nascita dell’appellativo odierno della città, originato dalla fusione di due parole provenienti da due diverse lingue.

E non pensiate che col 1463, con la conquista ottomana, sia cominciata la conversione forzata dei cristiani. Tutte bugie. La conversione fu soffice e indolore e i primi a convertirsi – e a trasformarsi negli antenati degli attuali musulmani bosniaci, la cui provenienze etnica è la stessa identica di cattolici e ortodossi – furono i bogomili, ovvero gli aderenti a una setta eretica cristiana forse fondata da un ex prete ortodosso, perseguitati sia dai cattolici che dagli ortodossi. Costoro, per reagire alle persecuzioni man mano si convertirono all’Islam, ottenendo così un riscatto sociale trasformandosi in proprietari terrieri e commercianti.

Sarajevo oggi è ancora così, figlia dell’amalgama di più culture, religioni, usanze, rispettosa delle genti che la visitano o vi vivono. È stata, lungo 1.350 giorni, il bastione indefesso della libertà contro il nazifascismo sanguinario dell’ultranazionalismo serbo e serbo-bosniaco che l’anno assediata e quasi rasa al suolo, facendo piovere sulle città – tra il 1992 e il 1995 – una media di oltre trecento granate al giorno, che nelle fasi più acute della devastazione sono diventate più di tremila (!) nell’arco di sole ventiquattr’ore. La città ha pagato all’assedio un dazio di sangue terribile, con oltre 11.000 morti, più del 10 per cento dei quali bambini. Cifre orribilmente simili, quasi identiche, a quella pagate dalla città in occasione di un altro assedio nazista e fascista, quello avvenuto durante la seconda guerra mondiale.

La distruzione non ha però fermato Sarajevo e la sua gente. Tra mille difficoltà – provocate dal sistema economico neoliberista innestato su un sistema sociale distrutto dalla guerra e dalle divisioni indotte dai nazionalismi cattolico, ortodosso e musulmano – la città sta rinascendo e i giovani stanno tornando a fare cultura, musica, teatro. La città torna a vivere e ci chiede due cose: di non ricordarla e rievocarla solo ogni dieci anni in occasione degli anniversari “tondi” dello scoppio della guerra; e di vigilare affinché le mafie e la pessima politica di questi anni vengano messi alla porta.

Sarajevo ha bisogno di noi, delle nostre menti libere e prive di pregiudizi. Sarajevo ci aspetta per visitarla e conoscerla. Non farlo equivale a dare ragione ai criminali – Ratko Mladić, Radovan Karadžić, Slobodan Milošević e loro eguali – che hanno provato a cancellarla e a violarne la natura.

In nessuna città al mondo nel volgere di poche centinaia di metri quadrati è possibile visitare la sinagoga ebraica, la cattedrale cattolica, quella ortodossa e la più antica e grande moschea dei Balcani. Che si creda o meno in Dio – qualunque nome Egli abbia e ammesso che esista – non si può non visitare il luogo, l’unico al mondo, in cui i più grandi monoteismi si guardano, si studiano, si scrutano a pochi metri di distanza. Ma non si odiano.

Che la soluzione dei conflitti balcanici attraverso la divisione non fosse una scelta “costruttiva” era chiaro ai più, e a molti era chiaro che tale scelta comportasse, in ogni caso, la necessità di un’attenzione e di una collaborazione costante perchè fosse sostenibile.
Le notizie che si fanno sempre più numerose e più frequenti in questi giorni, in particolare dal Kosovo, non possono non preoccupare: si rincorrono le parole “scontri”, “tensione”, “disordini” e “attacchi”.
Mitrovica torna ad essere la città simbolo dello scontro e delle divisioni. Si parla sempre più di civili armati, di sparatorie, di attacchi, di gruppi armati paralleli, nelle cronache e negli articoli. Solo per citarne alcuni: “I civili kosovari si armano e Belgrado lancia l’allarme“, un articolo di Stefano Giantin su Il Piccolo del 20 aprile scorso; “Incidents in Kosovo, Serbs targeted again“, su B92 il 13 aprile; poi gli spari a Mitrovica riportati dall’Ansa di oggi nell’artciolo “Kosovo, elezioni in Serbia, continua a salire la tenzione a Nord” . Molti legano questi fatti nel nord del Kosovo alle elezioni che si terranno in Serbia il prossimo 6 maggio, che, come è facile intuire, vedono nella questione Kosovo uno dei temi di maggiore scontro politico.

Eppure le notizie preoccupanti non giungono solo dal Kosovo. Anche la Macedonia nelle ultime settimane è teatro di particolari tensioni. “Macedonia, disordini dopo il pluriomicidio“, riporta Corriere.it sempre il 13 aprile scorso, parlando di tensioni a sfondo etnico tra i macedoni e gli albanesi. E su EastJournal un articolo di Matteo Zola ci spiega come qualcosa di più preoccupante stia succedendo in “MACEDONIA: L’incantesimo spezzato. Scontri tra macedoni e albanesi, sale la tensione e l’Europa sta a guardare“.

E, come dice appunto quest’ultimo articolo, l’Europa, ancora una volta, sta a guardare. Presa dai suoi problemi interni, dalla sua crisi, dalle sue divisioni e dai suoi estremismi, l’Europa è distratta e indifferente a quanto sta capitando in questi giorni. Senza capire che, io credo anche questa volta, il futuro dell’Europa si gioca anche nei Balcani.

I libri sono stati bruciati in momenti bui della storia, per il loro valore simbolico. Ora a Sarajevo è l’indifferenza verso un libro di 660 anni che rischia di fare un danno significativo alla città e alla sua storia

Sto leggendo molto su Sarajevo in questo periodo. La ricorrenza dei 20 anni dalla guerra, ha stimolato molti articoli e riflessioni, e alcuni, che a prima vista possono sembrare meno importanti, riportano fatti che invece hanno un significato enorme nel raccontarci la realtà della città e della società bosniaca attuale.

A Sarajevo c’è un libro di 660 anni che ora rischia di essere tolto alla città: si tratta della Haggadah custodita nel museo della città. Continua a leggere »

In alcuni post e in alcuni articoli di qualche tempo fa ho descritto la Sarajevo che cambia, e che, a vent’anni dalla guerra, non è più la città che era prima. Il cosmopolitismo, la convivenza, il carattere plurale della popolazione erano fatti concreti, non solo slogan, erano carattere intrinseco di Sarajevo come di altre città della Bosnia Erzegovina. La città nei suoi simboli, nella vita quotidiana e nelle relazioni era una città plurale.

Come ho detto altre volte, e come sostengono altri studiosi e osservatori, la guerra è stata condotta innanzitutto contro le città, contro lo spirito delle città, contro la pluralità e la convivenza . L’urbicidio non ha significato solo la distruzione di parti fisiche delle città, ma la cancellazione tragica dello spirito cosmopolita e plurale delle città. E nei simboli, nelle relazioni e nella quotidianità Sarajevo non è più Sarajevo.

Sono in parte d’accordo con chi dice che non bisogna più fermarsi troppo a parlare di conflitto e di divisioni, che bisogna iniziare a costruire il futuro, ma di certo il futuro della Bosnia non può trarre giovamento da una situzione che appare sempre più critica. Continua a leggere »

Ho sempre sostenuto che Torino è una delle città dove si sperimenta di più. Una nuova conferma arriva da questa iniziativa estremamanete interessante, che coniuga innovazione tecnologica, educazione, partecipazione e cittadinanza, e che segnalo mentre si sta già svolgendo proprio in questi giorni.

Performing Media, si svolge appunto a Torino il 14 e 15 aprile, e viene definita un’occasione per sperimentare esperienze educative e partecipative per la cittadinanza interattiva. L‘articolo su La Stampa che ne riporta la notizia ci dice che lo scopo è quello di “…approfondire i temi dell’innovazione, focalizzando l’attenzione sull’uso educativo, creativo e sociale delle tecnologie digitali. E’ in questo senso che il neologismo performing media definisce l’azione, il mettersi in gioco, la partecipazione, l’apprendimento al tempo del web 2.0“.

L’evento è organizzato da Urban Experience, Acmos e Xmedialab di Torino, con Libera e gli Stati Generali dell’Innovazione.

Una delle attività più interessanti è il Walk Show, cioè una passeggiata radioguidata che esplora alcuni luoghi simbolici della città-laboratorio torinese. Per un approfondimento del Walk Show di oggi 14 aprile vi invito a leggere il post su Urban Experience

La USP (Universidade de São Paulo) ha lanciato un progetto chiamato Arquigrafia, una piattaforma digitale collaborativa sull’architettura. Coordinata dalla Facoltà di Architettura e Urbanistica (FAU), la piattaforma metterà a disposizione un numero considerevole di immagini fotografiche, a partire proprio dallìarchivio digitale della FAU-USP,

Arquigrafia è dedicata “…aos estudiosos das cidades, das construções e da memória. Dedicado a disponibilizar o registro fotográfico da arquitetura em todo o país e suas modificações ao longo do tempo, o site contará com o acervo digital de 37 mil slides da Faculdade de Arquitetura e Urbanismo da USP (FAU), inseridos gradualmente.”

La piattaforma, che all’inizio sarà appunto basata principalmente su materiale fotografico, sarà aperta a tutti, previa registrazione con l’invio di una email alla FAU. Un articolo di spiegazione e le informazioni le potete troavre qui.

A vent’anni dall’inizio della guerra sono molti gli articoli e i commenti che vogliono non solo ricordare ma anche riflettere su cosa è e può essere la Bosnia.
Segnalo, su tutti gli articoli, il dossier “Bosnia, vent’anni dopo” che arricchisce le riflessioni di questi giorni con contributi quotidiani su Osservatorio Balcani e Caucaso.

Un articolo in particolare però mi ha colpito, ed è l’articoli uscito sul The Guardian dal titolo Bosnian war 20 years on: peace holds but conflict continues to haunt, che già dal sottotitolo è molto significativo: “Two decades after the conflict started, Bosnia is divided more than ever as bitter memories permeate society“. Continua a leggere »

La notte tra il 12 e 13 agosto 1961 veniva eretto il Muro di Berlino, e quindi oggi ricorre l’anniversario dei 50 anni della sua costruzione. Ci sono poche parole da aggiungere a quante ne siano state dette, soprattutto in questi giorni così come due anni fa in occasione delle celebrazioni dei 20 anni dalla sua caduta. Commentare è difficile, anche perchè l’epoca dei muri non è finita, come spesso ripeto attraverso questo blog presentando i nuovi muri e le divisioni che sempre più caratterizzano l’epoca attuale.

Il ricordo e la memoria di un’epoca, più di mille commenti, possono allora aiutare a manetenere vivo il significato tragico di quel Muro, non solo nei suoi aspetti geopolitici, non sono nella successione delle morti che hanno segnato la sua esistenza, ma ancora di più e soprattutto nelle storie “semplici” di un’intera generazione la cui vita quotidiana è stata stravolta. Il dolore è il tratto comune dei racconti, a volte accompagnato da rabbia e voglia di ribellione a volte da smarrimento e incredulità.

Allora oggi voglio solo segnalare un paio di articoli, di racconti, senza aggiungere altro alla memoria che ci deve aiutare  a mantenere viva l’attenzione sulle tragedie hanno segnato la storia del Muro di Berlino, ma che non sono finite con la sua caduta. Un articolo del sito del TG3, “Quando c’era il Muro di Berlino” ci parla di un paesino che venne in pratica tagliato fuori dal mondo. Non mancano poi le sezioni fotografiche, una in italiano molto completa la troviamo sul sito di Panorama, e sul Time nella sezione Light Box c’è un interessantissimo articolo sulle foto di Thomas Hoepker sulla vita quotidiana a est del Muro. Infine in una sezione speciale del Guardian sul Muro di Berlino, tra i vari articoli ce n’è uno intenso sulle storie di famiglie divise, intitolato”Berlin Wall 50 years on: families divided, loved ones lost“. Molto interessante in questo articolo è anche la conclusione, che ci presenta i rischi di una visione turistica della storia del Muro, che viene quasi spettacolarizzata o “Disneyzzata”: “Young people cannot comprehend that just 22 years ago there was a wall dividing this city. Anything that helps them to understand how and why things were as they were has got to be a good thing.”