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Archive for the ‘Storie’ Category

Riporto un post pubblicato oggi da Luca Leone, una bellissima descrizione della Sarajevo di oggi. Chi mi consoce sa che io sono critico su come sia cambiata e stia cambiando Sarajevo dopo il conflitto, ma Luca mi spinge sempre a vedere i lati belli di una città che rinasce, che bisogna sostenere per il significato che ha e che bisogna “abitare” guardando al futuro. Questo testo è una sorta di dichiarazione d’amore, da una persona che conosce benissimo Sarajevo e che ci invoglia a tornare a Sarajevo.

24/04/2012. La Sarajevo di oggi, di Luca Leone giornalista, autore di libri (tra cui Saluti da Sarajevo), editore (testo di ©Luca Leone 2012 e disponbile su www.infinitoedizioni.it).

Sono così tante le parole che il suo solo nome, Sarajevo, evoca e fa venire alla mente, da rendere arduo il metterle in fila e farle uscire dalla bocca, una per una.

Sarajevo è città dolce e spigolosa, aperta e ostinata, urbana e contadina, mistica e pervicacemente laica. È da sempre residenza e ispirazione per letterati, artisti, grandi poeti e immensi teatranti. È sede di commerci e viandanti che s’incontrano nei caravanserragli di ieri e d’oggi. È luogo degli opposti, in cui le diversità da oltre mezzo millennio s’incontrano, mescolano e convivono in serenità e armonia.

Il suo nome stesso – Sarajevo – è simbolo di simbiosi e ibridazione tra due culture ancor prima che queste s’incontrassero e si fondessero tra loro. La parola saraj è infatti turca e sta a testimoniare la radice ottomana della fondazione di Sarajevo. Il primo governatore (bej) turco di Sarajevo fu Isa-Beg Isaković, l’uomo che aveva conquistato nel 1463 la nuova provincia ottomana di Bosnia e che da subito dette il via all’edificazione della sua residenza e futuro palazzo del potere, appunto il saraj, che prese il nome di Konak. Saraj è dunque termine turco utilizzato per descrivere un palazzo fortificato al cui interno si svolgessero mansioni governative o amministrative. Il nome slavo della città era invece Saraje Ovasi, traducibile come “castello in pianura”. I primi Slavi erano giunti laddove sorge oggi Sarajevo intorno al 500 dopo Cristo. Il suffisso “evo” del nome della città deriva proprio da ovasi e la fusione dei due termini determinò la nascita dell’appellativo odierno della città, originato dalla fusione di due parole provenienti da due diverse lingue.

E non pensiate che col 1463, con la conquista ottomana, sia cominciata la conversione forzata dei cristiani. Tutte bugie. La conversione fu soffice e indolore e i primi a convertirsi – e a trasformarsi negli antenati degli attuali musulmani bosniaci, la cui provenienze etnica è la stessa identica di cattolici e ortodossi – furono i bogomili, ovvero gli aderenti a una setta eretica cristiana forse fondata da un ex prete ortodosso, perseguitati sia dai cattolici che dagli ortodossi. Costoro, per reagire alle persecuzioni man mano si convertirono all’Islam, ottenendo così un riscatto sociale trasformandosi in proprietari terrieri e commercianti.

Sarajevo oggi è ancora così, figlia dell’amalgama di più culture, religioni, usanze, rispettosa delle genti che la visitano o vi vivono. È stata, lungo 1.350 giorni, il bastione indefesso della libertà contro il nazifascismo sanguinario dell’ultranazionalismo serbo e serbo-bosniaco che l’anno assediata e quasi rasa al suolo, facendo piovere sulle città – tra il 1992 e il 1995 – una media di oltre trecento granate al giorno, che nelle fasi più acute della devastazione sono diventate più di tremila (!) nell’arco di sole ventiquattr’ore. La città ha pagato all’assedio un dazio di sangue terribile, con oltre 11.000 morti, più del 10 per cento dei quali bambini. Cifre orribilmente simili, quasi identiche, a quella pagate dalla città in occasione di un altro assedio nazista e fascista, quello avvenuto durante la seconda guerra mondiale.

La distruzione non ha però fermato Sarajevo e la sua gente. Tra mille difficoltà – provocate dal sistema economico neoliberista innestato su un sistema sociale distrutto dalla guerra e dalle divisioni indotte dai nazionalismi cattolico, ortodosso e musulmano – la città sta rinascendo e i giovani stanno tornando a fare cultura, musica, teatro. La città torna a vivere e ci chiede due cose: di non ricordarla e rievocarla solo ogni dieci anni in occasione degli anniversari “tondi” dello scoppio della guerra; e di vigilare affinché le mafie e la pessima politica di questi anni vengano messi alla porta.

Sarajevo ha bisogno di noi, delle nostre menti libere e prive di pregiudizi. Sarajevo ci aspetta per visitarla e conoscerla. Non farlo equivale a dare ragione ai criminali – Ratko Mladić, Radovan Karadžić, Slobodan Milošević e loro eguali – che hanno provato a cancellarla e a violarne la natura.

In nessuna città al mondo nel volgere di poche centinaia di metri quadrati è possibile visitare la sinagoga ebraica, la cattedrale cattolica, quella ortodossa e la più antica e grande moschea dei Balcani. Che si creda o meno in Dio – qualunque nome Egli abbia e ammesso che esista – non si può non visitare il luogo, l’unico al mondo, in cui i più grandi monoteismi si guardano, si studiano, si scrutano a pochi metri di distanza. Ma non si odiano.

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Il sogno compie 50 anni. Il 21 aprile 1960 veniva formalmente inaugurata la nuova capitale del Brasile, frutto del sogno politico del presidente Juscelino Kubitschek e dell’utopia urbana dell’architetto Oscar Niemeyer. Costruita in poco più di mille giorni da 50mila lavoratori definiti “pionieri” , con una struttura urbana a forma di aereoplano, Brasilia ha rappresentato la grandezza del Brasile che voleva conquistare il suo territorio interno, unificare il paese e trovare quindi una nuova capitale coun una portata unificatrice.

Il sito ufficiale che celebra l’avvenimento e racconta Brasilia di ieri e di oggi, presenta la visione celebrativa, che, come è naturale, contiene tutti gli elementi positivi e significativi della storia di questa capitale.

L’utopia della città costruita dal nulla ha però, in un bilancio oggettivo, dei chiaroscuri, degli elementi che ne fanno certamente una città simbolo, ed altri che la rendono fin troppo simile a tutte le altre città. Come ho scritto in un articolo di alcuni anni fa, Brasilia dimostra che può essere facile immaginare una nuova città ma è molto difficile realizzare una città nuova.

Non mi dilungo in questo post sui vari bilanci che sono stati fatti di questi cinquant’anni, ma voglio solo riportare qualche curiosità, tra le quali merita di essere visitato il sito dell’edizione speciale della rivista Veja, che titola “Brasília 50 anos. O nascimento de uma nação“, proprio a dimostrare come l’idea del Brasile come grande stato unitario sia nata dall’edificazione della sua nuova capitale. Nelle pagine dello speciale trovate molte curiosità, anche della fase iniziale, con la prima volta di Brasilia in una carta geografica, il primo incrocio, etc.

Sicuramente una citazione particolare merita l’articolo di France24 (la versione online in inglese), Anniversary for Brasilia leaves architect ‘sad’, nella quale troviamo un’interessante intervista all’architetto dell’utopia, Oscar Niemeyer, arrivato a 102 anni!. Dice l’articolo: Brazil’s futuristic capital Brasilia celebrates its 50th anniversary Wednesday, but the architect behind many of its grandiose concrete buildings says he is sad the city fell short of his egalitarian vision.(…) “Brasilia has changed a lot” from the original “well thought-out” conception, said Oscar Niemeyer (…) “The deep social divisions present in the new capital leave me sad”.

Per chi avesse piacere a conoscere meglio il grande architetto, questo è il sito di Oscar Niemeyer.


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Si è parlato molto nel periodo dell’anniversario dei vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino dell’effetto nostalgia che un certo mondo passato suscita nell’animo di qualcuno, anche quando quel mondo certamente non può essere definito tra le cose positive della storia. Colpa della crisi, delle ideologie che sono svanite, della mancanza di senso di appartenza di un mondo liquido, dell’insicurezza; fatto sta cheda un recente sondaggio pare che anche la caduta del Muro susciti qualche rimpianto.

Un sondaggio choc, così lo definisce il Corriere nel suo articolo di Taino Danilo di pochi giorni fa, che ci dice che un tedesco su quattro rimpiange il Muro: “… una nazione che dopo la riunificazione del 1990 è convinta che le cose andassero meglio prima. (…) È stato realizzato dalla Emnid – 1001 intervistati – in occasione della trasmissione in tv, ieri sera, di un film – Die Grenze, Il confine – che sta creando polemiche (…). Primo risultato, non ancora del tutto sorprendente: il 23% dei tedeschi occidentali e il 24% di quelli orientali vorrebbero che il muro tra le due Germanie tornasse. Si stava meglio prima, più ricchezza a Ovest, meno competizione sociale a Est. (…) Secondo risultato, che inizia a fare agitare sulla sedia: i cittadini che considerano la libertà un obiettivo politico importante sono il 42% del totale nella ex Germania ovest e il 28% nei Länder che formavano la Ddr. Saranno stati i costi della riunificazione, la crisi finanziaria, le riforme al Welfare state, fatto sta che la libertà oggi sembra essere per i tedeschi un valore o scontato o non troppo importante.  È il quarto risultato, quello che fa cadere dalla sedia: il 72% dei tedeschi occidentali e l’ 80% di quelli orientali dicono che possono immaginare di vivere in uno Stato socialista che garantisca occupazione, sicurezza, solidarietà“.

Anche il giornale tedesco Bild usa il termine “scioccante” per definire i risultati del sondaggio. Shocking Survey Results dice nel suo articolo  in inglese online dal titolo One in four Germans want the Berlin Wall back!: “When asked about the Berlin Wall, around 16 per cent said that “nothing better could possibly happen”.

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Sono appena tornato da un altro viaggio nei Balcani, nel quale finalmente sono stato a Banja Luka (di cui spero di riuscire a scrivere presto un post) e sono tornato a Brćko, dove ero invitato alle celebrazioni dei dieci anni del distretto.
Forse pochi lo sanno, ma Brćko è un distretto autonomo che rappresenta la terza entità amministrativa della Bosnia Erzegovina, oltre alla Federazione di Bosnia Erzegovina (la federazione croato-musulmana) e la Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina (la Repubblica Srpska).

Vi segnalo l’articolo che ho scritto, insieme alla mia collega Maria Teresa Ret, sui dieci anni del distretto, pubblicato pochi giorni fa da Osservatorio Balcani e Caucaso, dal titolo ” Brćko dieci anni dopo”: Il distretto di Brčko festeggia i suoi primi dieci anni. Dalla stabilizzazione allo sviluppo, l’apparente rinascita della cittadina bosniaca sulle rive della Sava. Il reportage, l’intervista al vice Alto Rappresentante Raffi Gregorian”

Ecco il link dell’articolo

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rio2016_apresentacaoLe Olimpiadi 2016 si faranno a Rio de Janeiro. Questa la decisione del Comitato Olimpico ieri sera, che ha premiato la città brasiliana in lizza con altre grandi città, tra le quali Madrid, Chicago e Tokyo.
Sarà la prima volta in America Latina. Sarà una grande prova per il Brasile e per Rio de Janeiro.

Le cose da fare sono moltissime, mancano sette anni ma, come scritto da qualcuno, bisogna iniziare oggi, non domani o dopodomani. Soprattuto bisogna capire se questo evento sarà, almeno in parte, un beneficio anche per la stragrande maggioranza povera della popolazione.

Per un giorno festeggiamo la notizia. Auguri Rio!! Viva sua paixão!

Il sito del comitato Rio2016 è questo http://www.rio2016.org.br

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Spesso si parla di città e futuro, e tra visioni immaginifiche, mega-progetti e innovazioni tecno-urbane anche in questo blog ne abbiamo parlato più volte. Ora viene pubblicata una serie di articoli molto interessanti, perchè partono da casi concreti di città medio-piccole, e non da grandi scenari “visionari”.

cittàfuture_iodonnaInfatti dal numero della scorsa settimana “Io Donna” ha iniziato a pubblicare una serie di articoli sulle città del futuro, guardando però non alle metropoli e alle grandi città del mondo ma alle città di medie dimensioni che riescono ad emergere coniugando successo e sostenibilità. La vera sfida, dice il magazine, riguarda le città di piccola-media grandezza, e così, attraverso un team di esperti, ne ha selezionate 12 che stanno emergendo per capacità economica, culturale, tecnologica, organizzativa

La prima città presentata, è stata Pittsburgh, scelta da Obama come sede dell’imminente G20. Tanto che l’articolo, pubblicato anche su Corriere.it, inizia proprio citando la sorpresa dei cronisti all’annuncio della scelta della città per l’importante appuntamento internazionale, città famosa quasi esclusivamente per il suo passato industriale: “Il succo della storia sta tutto in una risata; quella che è scappata ai cronisti della Casa Bianca quando hanno scoperto dal portavoce Robert Gibbs che il presidente aveva scelto Pittsburgh come sede del G20, il 24 settembre. Dopo Pechino, Berlino, Londra… gli alti papaveri delle potenze industriali e delle economie emergenti riuniti a Pittsburgh? Possibile – si saranno chiesti – che Obama si riferisca proprio a quella città della Pennsylvania che fu, buonanima, la capitale mondiale dell’acciaio e che poi, con il tracollo dell’industria pesante, nei primi Ottanta, è diventata il simbolo della fine di un mondo, madre di tutte le ghost cities, rottame metropolitano arrugginito per primo nella Rost Belt?

La domanda è “come si fa” a passare dall’essere simbolo dell’industria tradizionale in crisi a nuovo centro di sviluppo dell’economia della conoscenza: “…dal nulla grigio e vuoto della galleria al faccia a faccia micidiale con down town Pittsburgh, piazzato lì come una prua scintillante in mezzo a tre fiumi, una Manhattan lilliput dai colori pa stello – insomma quando hai questo frontale da amore a prima vista – è matematico che ti domandi con la bocca aperta: ma come hanno fatto a tenere nascosta una cosa bella così? Che segreto custodisce questa gente?

Pittsburgh, 310mila abitanti, conserva ancora il soprannome di “Steel city”, ma gli investimenti in formazione, conoscenza e innovazione hanno creato una svolta positiva che ha rilanciato la città. Gli investimenti privati sono stati determinanti, ma  occorre sottolineare la volontà politica “illuminata” che ha sostenuto questo processo, guarda caso con il Sindaco più giovane d’America, Luke Ravenstahl, 29 anni: «…hanno continuato a finanziare le università e le fondazioni culturali. Così si è innescato un processo virtuoso che ha permesso alla ricerca di concentrarsi su progetti vincenti che hanno fatto man bassa di fondi federali, capitali che hanno attirato ricercatori e altro capitale privato». Paul C. Wood, vicepresidente dell’Upmc spiega così la diversità e quindi la personalità tosta di Pittsburgh: «Qui non si insegue la palla, ma cerchi di piazzarti dove pensi che la palla arriverà. Non si vive alla giornata, puntando sulla bolla del momento, ma si investe pensando alla prossima generazione e senza chiedere aiuti pubblici. Insomma la mentalità è ancora quella operaia, anche se non ci sono quasi più operai».

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Sono a stato a Venezia, per puro svago, e nella solita folla di una domenica veneziana (per di più giorno della regata storica) pensavo a come sia difficile davvero conciliare le necessità di una città-museo, città-cartolina che vive per i turisti, e le necessità invece del vivere quotidiano degli abitanti.

Siccome ritengo che oggettivamente sia di difficile soluzione questa conciliazione, trovo sempre strumentali le polemiche sulla presunta immagine di Venezia “svenduta” ai privati e ai turisti, come se davvero Venezia potesse vivere senza essere “messa in vendita”. Eppure l’impatto che ho avuto al Ponte dei Sospiri mi mette davvero molti dubbi.

venezia_sospiri_restaurocoinNella polemica di pochi giorni fa, che ha visto coinvolti il Sindaco di Venezia Cacciari e il ministro Brunetta, al di là delle implicazioni personali della questione, trovavo fondato il problema sollevato dal Sindaco, e cioè che in una città come Venezia, che ha bisogno di molte risorse per essere curata, restaurata, e che deve rimanere attraente, se i soldi non possono venire dall’Amministrazione pubblica è giusto che si cerchino dai privati. E così Venezia ha venduto molte “superfici” ad aziende che vi hanno installato pubblicità.

Fino a qui, nulla di strano, a parte la dimensione di qualche pannello. Però ciò che ho visto al Ponte dei Sospiri secondo me va oltre. Come testimoniano le foto che qui riporto, in pratica il luogo del ponte è stato ceduto completamente ad una azienda, che ne ha fatto uno spazio diverso, uno spazio suo, una pubblicità.  Non più i muri esterni dei palazzi storici con incastonato il Ponte dei Sospiri, ma questo dentro ad una pubblicità. Insomma, non un marchio dato ad uno spazio, ma uno spazio dato ad un marchio.

venezia_sospiri_restaurocoin2Come riportato sulle stesse pareti di questo spazio “rinnovato”, tale azienda con questo investimento aiuta il restauro del Palazzo Ducale. E, sono consapevole, forse questa è stata l’unica strada per reperire i fondi. Sono molto diffuse ormai le coperture delle ristrutturazioni dei palazzi che riportano pubblicità, ma in generale, in luoghi di pregio storico-architettonico, di solito si cerca di riportare l’immagine di ciò che è coperto. In questo caso il luogo è proprio modificato, è a tutti gli effetti una pubblicità con dentro l’immagine del Ponte dei Sospiri.

Non sono io con questo post a risolvere il problema del reperimento di risorse per gli enti pubblici, e quindi capisco la difficoltà e l’opportunità data dai privati. Capisco la necessità, ma in questo caso i dubbi mi rimangono..

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Sono passati quattro anni dall’uragano Katrina e New Orleans si guarda allo specchio cercando di capire a che punto è la ricostruzione. Questo anniversario ha trovato molta copertura nei media statunitensi e, per chi volesse comprendere la situazione della città sono disponibili report, dati e molti articoli. Io ve ne segnalo qui sotto alcuni.

New Orleans-KATRINA Chicago TribuneLa cosa che trovo davvero positiva degli americani è che la ricostruzione è monitorata seriamente, e sono disponibili aggiornamenti periodici con report e dati. Si possono seguire i trend anno per anno e capire quindi, ad esempio, anche le dinamiche che intrecciano le conseguenze del disastro dell’uragano Katrina, la ricostruzione e la crisi attuale.

Sicuramente sui media c’è molta attesa rispetto a quanto farà Obama nel suo mandato, perché tutti ricorderanno che la tragedia di New Orleans fu uno dei punti più bassi della popolarità di Bush (forse il peggiore momento, al di là delle questioni belliche). Altrettanto vero è il fatto che l’America si trovò quasi sorpresa a scoprire i poveri in casa sua, e a scoprire  una città divisa, e che anche nelle tragedie esiste un’America ricca, concentrata in una “città alta”, che in fondo se l’è cavata e un’America povera rilegata in una “città bassa”, inondata e spazzata via.

A quattro anni di distanza la città presenta chiaro-scuri, con il paradosso che è una città che ha sofferto poco della crisi perché gran parte delle attività sono di costruzione immobiliare, edilizia e lavori pubblici. Le percentuali di zone e case recuperate e abitate sono ovviamente salite con un rallentamento della crescita però nell’ultimo periodo.

new orleans new york timesInteressanti sono gli articoli e le tabelle pubblicati, tra i quali, per chi avesse piacere o interesse ad approfondire, segnalo quello Chicago Tribune, con una mappa del Recovery in New Orleans molto chiara. Altre tabelle interessanti sono pubblicate dal The New York Times, con un articolo che si apre con una domanda che fa capire lo spirito con cui guarda al nuovo Presidente: “This year, the Gulf Coast’s recovery from Hurricane Katrina has become President Obama’s responsibility. How bad a situation has he inherited?”

Un report periodico molto preciso e aggiornato sui dati è The New Orleans Index, che viene pubblicato grazie al lavoro del Metropolitan Policy Program della Brookings Institution e del Greater New Orleans Community data Center. L’introduzione al numero del quarto anniversario, scaricabile dai siti dei due istituti, è già programmatica:  “Though New Orleans has been somewhat shielded from the recession due to substantial rebuilding activity, four years after Katrina the region still faces major challenges due to blight, unaffordable housing, and vulnerable flood protection. New federal leadership must commit and sustain its partnership with state and local leaders by delivering on key milestones in innovation, infrastructure, human capital, and sustainable communities to help greater New Orleans move past “disaster recovery” and boldly build a more prosperous future.”

Ora la sfida per New Orleans sembra essere quella di ricostruire un’identità oltre che riparare il disastro. Per concludere voglio riportare proprio le parole di AMY LIU, deputy director of the Metropolitan Policy Program, con cui si conclude l’articolo citato del New York Times: “President Obama’s biggest challenge is to work effectively with Louisiana officials and the next mayor of New Orleans to generate enough progress before next August to show that the city is truly reinventing itself, rather than simply returning to a suboptimal normal.”

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Le città italiane alla ricerca della bellezza perduta? Sembra proprio di sì, a giudicare dagli articoli che sempre più spesso parlano di città che perdono di qualità, di attrattività, di sostenibilità e di benessere. Il problema è che tale giudizio non è rivolto puramente all’esterno, rispetto al turismo o alle offerte per chi viene da fuori a studiare o a lavorare nel nostro paese, ma purtroppo riguarda gli abitanti, i residenti, quelli che quotidianamente vivono questo vero e proprio declino.

Negli ultimi giorni ho trovato molta similitudine sullo stato delle città italiane tra un articolo uscito ieri su Corriere.it su Milano e un articolo della rivista Monocle che accompagnava la loro annuale classifica sulle città più vivibili.

Il Corriere, nell’articolo-denuncia di Corrado Stajano, titolava “Milano senza sogni, città amara”, con un sottotitolo molto duro: “Indifferenza, razzismo, traffico, inquinamento: così la metropoli perde l’anima”. Una città dove regna l’incuria, dove si è perso lo spirito solidale, dove sono spariti i luoghi di aggregazione e dove il senso civile è andato via via spegnendosi. Una denuncia, in questo articolo, dove si guarda con amarezza all’ottimismo di maniera, nel quale l’Expo 2015 sembra quasi un miraggio come soluzione a tutti i mali. Milano deve ritrovare al suo interno la strada persa, nelle sue strade, nelle sue persone, e nelle piccole cose che fanno di una città un luogo bello dove stare e vivere. “Per raccontar Milano è bene partire dal basso, dai marciapiedi, più che dalle alte vette, il primato sociale e civile dato una volta per scontato o la capitale morale andata in frantumi come un vaso di terraglia.” Milano non è più vivibile, sembra dirci l’autore dell’articolo.

Monocle_italy's_citiesE proprio di città vivibili parla Monocle nel suo numero di luglio, stilando l’annuale classifica “The World’s Top 25 Most Liveable Cities”, che testa le città più importanti del mondo per capire sia quali si stanno muovendo verso una maggiore sostenibilità e qualità della vita, sia quali siano le generali dinamiche di trasformazione delle città. Lo scorso anno al primo posto figurava Copenhagen, quest’anno troviamo Zurigo. Al di là dei contenuti della classifica, di cui magari parlerò in un altro post, quello che qui è interessante notare è che per il terzo anno consecutivo nessuna città italiana entra fra le prime 25. E sulla rivista troviamo un commento proprio su questa assenza delle nostre città, dal titolo “Nice reastaurants, but…“. Anche qui il giudizio è molto crudo, fina dalla prefazione:

For a third year running, Italian cities failed to make our list. Though attractive spots for 48 hours of sightseeing or shopping, more needs to be done for their residents. Take public transport. Poorly funded and chronically late, the number of commuters on buses and trams actually fell in 2008. With most people behind the wheel, city centres are gridlocked and pavements used as makeshift car parks“.

L’ottmismo di maniera dovrebbe quindi lasciare spazio alla consapevolezza, al realismo e al buon senso, perchè c’è molto da fare per gli abitanti delle città italiane, se, come dice la’rticolo sopra citato, stiamo diventando un paese buono solo per 48 di turismo e shopping.

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Oggi una mia amica mi ha parlato della necessità di mettersi a ragionare seriamente sugli strumenti e sui principi della pianificazione, ferma ormai su concetti radicati ma ormai, operativamente, quasi privi di consistenza, almeno nella maggioranza delle politiche pubbliche.

Uno di questi concetti è la sostenibilità, e su questo concetto, mentre si discute molto a livello di principi e di micro-progetti, forse le nostre città ancora poco lavorano quando si tratta di strumenti tecnici politico/amministrativi e di visione generale dello sviluppo del proprio territorio.

Mi è quindi venuta in mente la nascente città a impatto zero, Masdar City, che, come molti dei più visionari progetti della città del futuro, nascerà negli Emirati Arabi a pochi chilometri da Abu Dhabi. Non una “normale” città nuova costruita dal nulla, ma viene definita una vera e propria nuova forma di convivenza urbana. Un visione urbana, insomma.

masdar cityE infatti il sito di Masdar City parla della città come dell’espressione fisica di una visione. La nascita di questa città rientra in un mega-progetto denominato proprio The Masdar Initiative; come scritto nel sito, “Abu Dhabi has established its leadership position by launching the Masdar Initiative a global cooperative platform for the open engagement in the search for solutions to some of mankind’s most pressing issues energy security climate change and the development of human expertise (…)

Tra gli obiettivi fissati dal progetto ideato dal grande architetto Foster, e che sono elencati sul sito, ci sono: 100% energia rinnovabile, carbon neutral, zero waste. Masdar city promette di fissare nuovi benchmarks per la sostenibilità delle città del futuro.

Un interessante articolo su questa visione di città è stato pubblicato qualche mese fa nella sezione online “Le città illuminate” dell’inserto Nova del Sole24Ore, articolo dal titolo “La città dell’energia” a firma di Alessandra Viola. Anche qui, oltre a interessanti descrizioni e ad alcuni dati, viene ripreso il concetto di visione: “La città del futuro, capace davvero di proporre un nuovo modello di convivenza sociale e urbana, dovrà ricondurre il problema energetico e ambientale alla loro dimensione essenziale, l’uomo. (…) Masdar invece si propone al mondo come laboratorio vivente di convivenza sociale e buone pratiche. Un work in progress di nuove tecnologie per l’energia (vi ha già aperto, con il sostegno del Mit, un ambizioso centro di ricerca), riciclaggio, mobilità e tecniche per lo smaltimento dei rifiuti. Ma soprattutto vuole essere un laboratorio umano, dove immaginare i cittadini del futuro.

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