Ieri ho letto una bellissima intervista su Corriere.it nella sezione di Milano, che voglio riportare qui, e che potete trovare nell’articolo “Loi: non solo eventi. Piazze, scuole, ospedali: lì nasce la vera cultura” .
Il poeta Franco Loi afferma che la cultura delle città è dove ci sono le persone. «La cultura è muovere la coscienza di chi ci ascolta. Non grandi mostre o grandi festival. È andare tra la gente e andarci di persona»
Esiste un grande dibattito sul contrasto che nasce nelle città quando viene promosso un processo di rinnovo urbano, di recupero, o quando vengono promossi mega-progetti urbanistici di sviluppo: da un lato chi vede come importante l’immagine che si dà all’esterno della città, come “cartolina” o “biglietto da visita” nella competitività del marketing urbano globale; dall’altro chi invece ritiene che sono i cambiamenti rivolti più alle ricadute interne, nella qualità della vita urbana quotidiana (fisico-ambientale, sociale, culturale), ad essere il vero tramite dello sviluppo e dell’attrattività di una città.
Probabilmente la risposta sta in una posizione intermedia, il problema è che spesso si trascura il secondo aspetto, considerandolo poco “visibile”. E il poeta Loi, nella sua intervista, infatti non nega l’importanza dei grandi progetti («Penso già a cosa sarà l’Expo: costruzioni, denaro, infrastrutture. Benissimo, ma non è sufficiente») ma punta decisamente ad una dimensione della cultura urbana più legata al carattere locale, più vicina ai cittadini, una cultura dal basso che non significa assolutamente una cultura bassa: «Dove ci sono le persone. Negli ospedali, nelle mense aziendali, nelle scuole.(…)Non bisogna identificare la cultura con le iniziative di rappresentanza, le grandi mostre da centomila visitatori. Si va, si guarda, si dice ‘Ci sono stato’, poi si torna a casa e non è cambiato niente»
La cultura delle città è quindi spesso una cultura informale, che sta nelle molte iniziative delle associazioni e dei cittadini che autopromuovono un’azione di comunità locale : «Sì, è quella delle mille associazioni d’arte, di musica, di volontariato che lavorano senza ascoltare le direttive di nessuno, partito o autorità. Che, semplicemente, fanno quello che c’è da fare negli ospedali, nel quartiere». Comunità locali che fanno le città, nelle quali anche il dialetto, anche in grandi città come Milano, diventa nuovamente la lingua franca tra i cittadini di diversa provenienza «È come per il dialetto: pensavo che fosse scomparso, fino a quando in via Paolo Sarpi non ho sentito un cinese dire all’altro: ‘Alura, cume l’è andada?’. Gliel’ho detto, è strana questa città, quando tutto sembra finito, ricomincia in qualche altro modo».
E proprio ieri si è svolta a Milano, in Via Sarpi, la Chinatown della città oggetto di grandi “contrasti”, una originalissima gara, quella di carrellini. I famosi carrellini per trasportare le merci, tanto usati dai cinesi e divenuti ormai simbolo di quella parte di città, diventano anche strumento originale per proporre una riflessione. E, come riporta un articolo di Repubblica.it sempre nella sezione di Milano (con relativa galleria fotografica), l‘intento degli organizzatori è proprio quello di trovare percorsi di incontro tra le diverse diverse culture urbane: «L´iniziativa affronta in modo ironico quello che è diventato uno dei simboli del conflitto nel quartiere Sarpi, così da ritrovare un terreno comune di confronto e dialogo»
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