La Casa Bianca dà l’esempio, e, in linea con una tendenza molto in crescita in questo periodo, si fa l’orto nel giardino di casa. La first lady Michelle Obama ha inaugurato pochi giorni fa il presidenziale “kitchen garden”, riprendendo un’iniziativa che avevano promosso i Roosvelt.
Che l’intento sia quello di proporre uno stile dietetico più equilibrato contro il “junk food” è chiaro, ma non va sottovalutata la volontà di produrre verdura sana e fresca a basso costo anche come messaggio contro la crisi. E in fondo, come riporta un’articolo su Corriere.it , “i Roosevelt avevano un “Victory Garden” negli anni più duri della guerra, quando il 40% degli ortaggi Usa erano prodotti a casa”. Gli orti urbani dei tempi della guerra quindi, riproposti in forma moderna ma con lo stesso spirito: autoproduzione, contenimento dei prezzi e della spesa familiare, e anche presa di responsabilità, sostenibilità e nuova socialità. Una socialità che parte dal coinvolgimento dei familiari (come nel caso della first lady che si rivolge in primo luogo ai bambini), ma anche una nuova socialità urbana in generale.
Infatti la pratica dell’ urban farming, per molto tempo vista quasi esclusivamente come strumento di inclusione lavorativa di persone svantaggiate, si sta sviluppando sempre di più negli Stati Uniti ma non solo (magari ne parlerò più a lungo in un post futuro). In tutto il pianeta, Italia compresa, si riparla di orti urbani, urban farming e produzione locale nella quale riscoprire la regole base della natura. In questo senso vanno anche le iniziative “chilometro zero” e “farmer market”, avviate in questi ultimi anni in Italia per avvicinare la produzione al consumatore e abbassare i costi. Orti urbani e produzione locale come riconsiderazione dello sviluppo, pensando contemporaneamente alla crisi, alla salute e all’ambiente. Che dire, speriamo che duri anche quando la crisi sarà finita!