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Che la soluzione dei conflitti balcanici attraverso la divisione non fosse una scelta “costruttiva” era chiaro ai più, e a molti era chiaro che tale scelta comportasse, in ogni caso, la necessità di un’attenzione e di una collaborazione costante perchè fosse sostenibile.
Le notizie che si fanno sempre più numerose e più frequenti in questi giorni, in particolare dal Kosovo, non possono non preoccupare: si rincorrono le parole “scontri”, “tensione”, “disordini” e “attacchi”.
Mitrovica torna ad essere la città simbolo dello scontro e delle divisioni. Si parla sempre più di civili armati, di sparatorie, di attacchi, di gruppi armati paralleli, nelle cronache e negli articoli. Solo per citarne alcuni: “I civili kosovari si armano e Belgrado lancia l’allarme“, un articolo di Stefano Giantin su Il Piccolo del 20 aprile scorso; “Incidents in Kosovo, Serbs targeted again“, su B92 il 13 aprile; poi gli spari a Mitrovica riportati dall’Ansa di oggi nell’artciolo “Kosovo, elezioni in Serbia, continua a salire la tenzione a Nord” . Molti legano questi fatti nel nord del Kosovo alle elezioni che si terranno in Serbia il prossimo 6 maggio, che, come è facile intuire, vedono nella questione Kosovo uno dei temi di maggiore scontro politico.

Eppure le notizie preoccupanti non giungono solo dal Kosovo. Anche la Macedonia nelle ultime settimane è teatro di particolari tensioni. “Macedonia, disordini dopo il pluriomicidio“, riporta Corriere.it sempre il 13 aprile scorso, parlando di tensioni a sfondo etnico tra i macedoni e gli albanesi. E su EastJournal un articolo di Matteo Zola ci spiega come qualcosa di più preoccupante stia succedendo in “MACEDONIA: L’incantesimo spezzato. Scontri tra macedoni e albanesi, sale la tensione e l’Europa sta a guardare“.

E, come dice appunto quest’ultimo articolo, l’Europa, ancora una volta, sta a guardare. Presa dai suoi problemi interni, dalla sua crisi, dalle sue divisioni e dai suoi estremismi, l’Europa è distratta e indifferente a quanto sta capitando in questi giorni. Senza capire che, io credo anche questa volta, il futuro dell’Europa si gioca anche nei Balcani.

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Mentre si stanno per ricordare i 50 anni dalla costruzione del Muro di Berlino, ecco un nuovo muro, anzi un fossato come un muro ai confini dell’Europa. Un articolo del Corriere riporta la notizia della nuova opera costruita tra Grecia e Turchia, lungo il fiume Evros, per impedire il passaggio di immigrati clandestini. Non si tratta di un piccolo intervento, ma di un’opera enorme: un fossato appunto lungo 120 Km, largo 30 metri e profondo 7.

Simbolicamente questa nuova barriera difensiva riporta la mente proprio ai castelli medievali, alle fortezze, isolate dal loro intorno grazie a muri e fossati. Non si tratta di un’azione a sorpresa, anzi, se ne parlava da molto tempo e ormai dall’inizio del 2011 era chiara l’intenzione della Grecia di procedere con la costruzione di quest’opera, come riportato ad esempio a gennaio da un articolo sul sito Globalsecurity (anche l’immagina qui affianco è presa dallo stesso articolo).

Come spesso accade l’Unione Europea è impotente su questi temi, al di là di esprimere contrarietà in linea di principio. Sempre a gennaio un articolo del Guardian ci diceva che la notizia imbarazzava Bruxelles, e la Commissione Europea tramite il portavoce per la sicurezza si era affrettata a dire che “Walls or fences are short-term measures that are not meant to deal with the question of illegal immigration in a structural way“. La realtà purtroppo dimostra il contrario e a 50 anni dal Muro di Berlino stiamo sempre più costruendo, tra muri e fossati, un’Europa fortezza.

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Si è parlato molto nel periodo dell’anniversario dei vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino dell’effetto nostalgia che un certo mondo passato suscita nell’animo di qualcuno, anche quando quel mondo certamente non può essere definito tra le cose positive della storia. Colpa della crisi, delle ideologie che sono svanite, della mancanza di senso di appartenza di un mondo liquido, dell’insicurezza; fatto sta cheda un recente sondaggio pare che anche la caduta del Muro susciti qualche rimpianto.

Un sondaggio choc, così lo definisce il Corriere nel suo articolo di Taino Danilo di pochi giorni fa, che ci dice che un tedesco su quattro rimpiange il Muro: “… una nazione che dopo la riunificazione del 1990 è convinta che le cose andassero meglio prima. (…) È stato realizzato dalla Emnid – 1001 intervistati – in occasione della trasmissione in tv, ieri sera, di un film – Die Grenze, Il confine – che sta creando polemiche (…). Primo risultato, non ancora del tutto sorprendente: il 23% dei tedeschi occidentali e il 24% di quelli orientali vorrebbero che il muro tra le due Germanie tornasse. Si stava meglio prima, più ricchezza a Ovest, meno competizione sociale a Est. (…) Secondo risultato, che inizia a fare agitare sulla sedia: i cittadini che considerano la libertà un obiettivo politico importante sono il 42% del totale nella ex Germania ovest e il 28% nei Länder che formavano la Ddr. Saranno stati i costi della riunificazione, la crisi finanziaria, le riforme al Welfare state, fatto sta che la libertà oggi sembra essere per i tedeschi un valore o scontato o non troppo importante.  È il quarto risultato, quello che fa cadere dalla sedia: il 72% dei tedeschi occidentali e l’ 80% di quelli orientali dicono che possono immaginare di vivere in uno Stato socialista che garantisca occupazione, sicurezza, solidarietà“.

Anche il giornale tedesco Bild usa il termine “scioccante” per definire i risultati del sondaggio. Shocking Survey Results dice nel suo articolo  in inglese online dal titolo One in four Germans want the Berlin Wall back!: “When asked about the Berlin Wall, around 16 per cent said that “nothing better could possibly happen”.

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Spesso si parla di città e futuro, e tra visioni immaginifiche, mega-progetti e innovazioni tecno-urbane anche in questo blog ne abbiamo parlato più volte. Ora viene pubblicata una serie di articoli molto interessanti, perchè partono da casi concreti di città medio-piccole, e non da grandi scenari “visionari”.

cittàfuture_iodonnaInfatti dal numero della scorsa settimana “Io Donna” ha iniziato a pubblicare una serie di articoli sulle città del futuro, guardando però non alle metropoli e alle grandi città del mondo ma alle città di medie dimensioni che riescono ad emergere coniugando successo e sostenibilità. La vera sfida, dice il magazine, riguarda le città di piccola-media grandezza, e così, attraverso un team di esperti, ne ha selezionate 12 che stanno emergendo per capacità economica, culturale, tecnologica, organizzativa

La prima città presentata, è stata Pittsburgh, scelta da Obama come sede dell’imminente G20. Tanto che l’articolo, pubblicato anche su Corriere.it, inizia proprio citando la sorpresa dei cronisti all’annuncio della scelta della città per l’importante appuntamento internazionale, città famosa quasi esclusivamente per il suo passato industriale: “Il succo della storia sta tutto in una risata; quella che è scappata ai cronisti della Casa Bianca quando hanno scoperto dal portavoce Robert Gibbs che il presidente aveva scelto Pittsburgh come sede del G20, il 24 settembre. Dopo Pechino, Berlino, Londra… gli alti papaveri delle potenze industriali e delle economie emergenti riuniti a Pittsburgh? Possibile – si saranno chiesti – che Obama si riferisca proprio a quella città della Pennsylvania che fu, buonanima, la capitale mondiale dell’acciaio e che poi, con il tracollo dell’industria pesante, nei primi Ottanta, è diventata il simbolo della fine di un mondo, madre di tutte le ghost cities, rottame metropolitano arrugginito per primo nella Rost Belt?

La domanda è “come si fa” a passare dall’essere simbolo dell’industria tradizionale in crisi a nuovo centro di sviluppo dell’economia della conoscenza: “…dal nulla grigio e vuoto della galleria al faccia a faccia micidiale con down town Pittsburgh, piazzato lì come una prua scintillante in mezzo a tre fiumi, una Manhattan lilliput dai colori pa stello – insomma quando hai questo frontale da amore a prima vista – è matematico che ti domandi con la bocca aperta: ma come hanno fatto a tenere nascosta una cosa bella così? Che segreto custodisce questa gente?

Pittsburgh, 310mila abitanti, conserva ancora il soprannome di “Steel city”, ma gli investimenti in formazione, conoscenza e innovazione hanno creato una svolta positiva che ha rilanciato la città. Gli investimenti privati sono stati determinanti, ma  occorre sottolineare la volontà politica “illuminata” che ha sostenuto questo processo, guarda caso con il Sindaco più giovane d’America, Luke Ravenstahl, 29 anni: «…hanno continuato a finanziare le università e le fondazioni culturali. Così si è innescato un processo virtuoso che ha permesso alla ricerca di concentrarsi su progetti vincenti che hanno fatto man bassa di fondi federali, capitali che hanno attirato ricercatori e altro capitale privato». Paul C. Wood, vicepresidente dell’Upmc spiega così la diversità e quindi la personalità tosta di Pittsburgh: «Qui non si insegue la palla, ma cerchi di piazzarti dove pensi che la palla arriverà. Non si vive alla giornata, puntando sulla bolla del momento, ma si investe pensando alla prossima generazione e senza chiedere aiuti pubblici. Insomma la mentalità è ancora quella operaia, anche se non ci sono quasi più operai».

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È di ieri la notizia che al rientro dalle vacanze molti cittadini in Italia troveranno una novità, che li costringerà ad andare più lenti: il limite in molte strade urbane posto a 30Km/h!

Rientro slow” ha titolato un commento su Corriere.it, richiamando la strategia della lentezza: “Da Roma a Milano, a Bologna, a Verona, la ripresa rilancia la mobilità dolce e i progetti per migliorare la vivibilità e la qualità urbana. È la rivincita di pedoni e ciclisti (almeno sulla carta), limite_30kmhma anche la svolta tante volte annunciata per rendere più sicure le strade e adeguare le nostre città agli standard della Ue.

La notizia ovviamente viene accolta con diverse reazioni, perché comunque ogni limite incontra qualche oppositore. Provocatoriamente mi viene da dire che non cambia molto perchè per il traffico congestionato la velocità in certe zone centrali è già molto inferiore (la velocità media dei mezzi pubblici in molte città italiane al di sotto dei 20Km/h). Il punto però è che imporre un limite di velocità di questo tipo è un buon passo per rendere più sicure le nostre strade ma un  passo piccolo piccolo per renderle più vivibili.

Per avere città a misura di cittadino occorre una strategia appunto. Purtroppo l’Italia continua ad essere un paese nel quale le strategie si hanno solo sull’aumento dell’edificabilità e della possibilità di costruire. Non per niente, come ho detto in altri post precedenti, le città italiane non rientrano più in classifiche internazionali sulla qualità del vivere urbano. Tra la rete di metropolitana quasi inesistente, le aree verdi scarse e spesso degradate, le pedonalizzazioni osteggiate, le piste ciclabili spesso solo annunciate o mal realizzate, i quartieri con spazi di socializzazione ristretti, la vivibilità delle nostre città è a livelli qualitativi sempre decrescenti.  E l’auto continua ad essere il centro attorno al quale ruota il resto del mondo…

La lentezza non deve essere un mito ma un approccio serio per migliorare le nostre città. La città lenta è una questione di cultura urbana e politica, non di tecnicalità urbanistica o ingegneristica. Per essere più sicuri nelle strade va benissimo andare a 30 all’ora, l’importante è che la strada non sia l’unico oggetto di intervento delle nostre politiche urbane.

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Le città italiane alla ricerca della bellezza perduta? Sembra proprio di sì, a giudicare dagli articoli che sempre più spesso parlano di città che perdono di qualità, di attrattività, di sostenibilità e di benessere. Il problema è che tale giudizio non è rivolto puramente all’esterno, rispetto al turismo o alle offerte per chi viene da fuori a studiare o a lavorare nel nostro paese, ma purtroppo riguarda gli abitanti, i residenti, quelli che quotidianamente vivono questo vero e proprio declino.

Negli ultimi giorni ho trovato molta similitudine sullo stato delle città italiane tra un articolo uscito ieri su Corriere.it su Milano e un articolo della rivista Monocle che accompagnava la loro annuale classifica sulle città più vivibili.

Il Corriere, nell’articolo-denuncia di Corrado Stajano, titolava “Milano senza sogni, città amara”, con un sottotitolo molto duro: “Indifferenza, razzismo, traffico, inquinamento: così la metropoli perde l’anima”. Una città dove regna l’incuria, dove si è perso lo spirito solidale, dove sono spariti i luoghi di aggregazione e dove il senso civile è andato via via spegnendosi. Una denuncia, in questo articolo, dove si guarda con amarezza all’ottimismo di maniera, nel quale l’Expo 2015 sembra quasi un miraggio come soluzione a tutti i mali. Milano deve ritrovare al suo interno la strada persa, nelle sue strade, nelle sue persone, e nelle piccole cose che fanno di una città un luogo bello dove stare e vivere. “Per raccontar Milano è bene partire dal basso, dai marciapiedi, più che dalle alte vette, il primato sociale e civile dato una volta per scontato o la capitale morale andata in frantumi come un vaso di terraglia.” Milano non è più vivibile, sembra dirci l’autore dell’articolo.

Monocle_italy's_citiesE proprio di città vivibili parla Monocle nel suo numero di luglio, stilando l’annuale classifica “The World’s Top 25 Most Liveable Cities”, che testa le città più importanti del mondo per capire sia quali si stanno muovendo verso una maggiore sostenibilità e qualità della vita, sia quali siano le generali dinamiche di trasformazione delle città. Lo scorso anno al primo posto figurava Copenhagen, quest’anno troviamo Zurigo. Al di là dei contenuti della classifica, di cui magari parlerò in un altro post, quello che qui è interessante notare è che per il terzo anno consecutivo nessuna città italiana entra fra le prime 25. E sulla rivista troviamo un commento proprio su questa assenza delle nostre città, dal titolo “Nice reastaurants, but…“. Anche qui il giudizio è molto crudo, fina dalla prefazione:

For a third year running, Italian cities failed to make our list. Though attractive spots for 48 hours of sightseeing or shopping, more needs to be done for their residents. Take public transport. Poorly funded and chronically late, the number of commuters on buses and trams actually fell in 2008. With most people behind the wheel, city centres are gridlocked and pavements used as makeshift car parks“.

L’ottmismo di maniera dovrebbe quindi lasciare spazio alla consapevolezza, al realismo e al buon senso, perchè c’è molto da fare per gli abitanti delle città italiane, se, come dice la’rticolo sopra citato, stiamo diventando un paese buono solo per 48 di turismo e shopping.

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da-bnporguk-files-2008-12-swedish-riotsDopo le banlieues parigine, con i loro scontri di alcuni anni fa, ora tocca alla Svezia. Sono diversi mesi che a Malmö si vive una situazione di emergenza urbana e sociale, un nuovo capitolo in Europa del fenomeno delle periferie urbane in fiamme, che fa emergere non solo una questione contingente di violenza ma un vero e proprio problema di integrazione. In Svezia la cosa sorprende ancora di più, anche se il ghetto ribelle è quello di Rosengard, nella periferia orientale di Malmö, una delle periferie urbane più famose del paese (divenuto ampiamente conosciuto anche perchè luogo d’infanzia del calciatore Ibrahimovic), luogo che ha cambiato radicalmente composizione sociale in anni di forte immigrazione.

Oggi un articolo su Corriere.it riassume i fatti degli ultimi mesi e la situazione di emrgenza che si è creata, e mette in luce la crisi non solo di una città e di una sua parte, ma di un modello di integrazione come quello svedese che sembrava essere tra i migliori in Europa. Il giornalista Paolo Salom scrive nell’articolo:

“Periferia orientale di Malmö. Palazzi gettati come mattoncini a formare isole tanto ordina­te quanto slegate l’una dall’altra, cemento a vi­sta: uno dei tanti progetti che, sulla carta, ne­gli anni Sessanta e Settanta, dovevano risolve­re una volta per tutte il «problema casa» della classe operaia più viziata d’Europa. Oggi i lavo­ratori svedesi sono una minoranza minacciata più dall’incedere dell’immigrazione islamica che dalla crisi economica. «Non c’è più posto per noi», spiega con un sorriso a mezza bocca Anders Püschel, al momento «disoccupato». Non c’è più posto per nessuno, a giudicare da­gli ultimi eventi.”

(…)Malmö, terza città della Svezia, capoluogo della prospera Scania, porto sull’Öresund con un passato di traffici che non torneranno più, ha 270 mila abitanti, centomila dei quali stra­nieri, per lo più concentrati a Rosengard e din­torni. Come dire, un residente su tre è musul­mano. Molti vengono dai Balcani, dall’Africa, dall’Asia centrale. «Ci sono cento e più nazio­nalità nel quartiere — spiega Stefan Alfelt, cor­rispondente locale di Aftonbladet, uno dei principali quotidiani nazionali —. Pochi di lo­ro hanno un’occupazione. In alcune zone i sen­za lavoro sono addirittura l’86% degli adulti. I giovani crescono osservando i genitori che vi­vono di carità pubblica. Sanno di essere senza speranza e si comportano di conseguenza: fan­no la guerra». Curiosamente, non è un conflit­to «Rosengard contro gli altri». «Gli scontri ra­ramente superano i confini del quartiere — di­ce ancora Alfelt —. È una guerra civile locale: tutti contro tutti»”

rosengard-polizia-da-the-localseDa diversi mesi Rosengard è diventata campo di battaglia, con continui roghi, un gioco distruttivo nel quale i bersagli principali sono i vigili del fuoco e gli agenti di polizia. La situazione è sfuggita di mano e con grande difficoltà si cerca di arginare almeno la violenza. Alcuni articoli in inglese si trovano sul giornale svedese online The Local, che ci aggiorna in maniera puntuale su quanto sta accadendo, fino alla richiesta di coprifuoco proprio di questi giorni. Come detto sopra, il grande interrogativo ora riguarda il modello di integrazione, che viene affrontato sempre in un articolo di The Local, “Rosengård: Integration in the eye of the storm“. Per capire il grado di segregazione socio-spaziale basterebbe la domanda di un giovane immigrato riportata nell’articolo:“How does society expect us to integrate when we are so segregated?” asks Sami Touman, a 21-year-old mechanical engineer student whose family comes from Gaza.

L’articolo del Corriere, riportando la “preoccupante” tranquillità del sindaco, chiude con una domanda che vale per tutte le città e per la nostra società in generale: “Il modello sociale svedese? «Non spetta a me interpretare la politica del governo», ci ha detto il sindaco Ilmar Reepalu, socialdemocratico, facendo in­tendere che lui, la sua città, vuole continuare ad amministrarla come se il welfare scandina­vo non fosse superato dalla realtà. Certo «dob­biamo iniziare a progettare qualcosa di diver­so. Ne va della tranquillità di tutti». Solo una questione di ordine pubblico, allo­ra?“.

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artwhobamagardeningLa Casa Bianca dà l’esempio, e, in linea con una tendenza molto in crescita in questo periodo, si fa l’orto nel giardino di casa. La first lady Michelle Obama ha inaugurato pochi giorni fa il presidenziale “kitchen garden”, riprendendo un’iniziativa che avevano promosso i Roosvelt.

Che l’intento sia quello di proporre uno stile dietetico più equilibrato contro il “junk food” è chiaro, ma non va sottovalutata la volontà di produrre verdura sana e fresca a basso costo anche come messaggio contro la crisi. E in fondo, come riporta un’articolo su Corriere.it , “i Roosevelt avevano un “Victory Garden” negli anni più duri della guerra, quando il 40% degli ortaggi Usa erano prodotti a casa”. Gli orti urbani dei tempi della guerra quindi, riproposti in forma moderna ma con lo stesso spirito: autoproduzione, contenimento dei prezzi e della spesa familiare, e anche presa di responsabilità, sostenibilità e nuova socialità. Una socialità che parte dal coinvolgimento dei familiari (come nel caso della first lady che si rivolge in primo luogo ai bambini), ma anche una nuova socialità urbana in generale.

Infatti la pratica dell’ urban farming, per molto tempo vista quasi esclusivamente come strumento di inclusione lavorativa di persone svantaggiate, si sta sviluppando sempre di più negli Stati Uniti ma non solo (magari ne parlerò più a lungo in un post futuro). In tutto il pianeta, Italia compresa, si riparla di orti urbani, urban farming e produzione locale nella quale riscoprire la regole base della natura. In questo senso vanno anche le iniziative  “chilometro zero” e “farmer market”, avviate in questi ultimi anni in Italia per avvicinare la produzione al consumatore e abbassare i costi. Orti urbani e produzione locale come riconsiderazione dello sviluppo, pensando contemporaneamente alla crisi, alla salute e all’ambiente. Che dire, speriamo che duri anche quando la crisi sarà finita!

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Se i nostri centri urbani non hanno più spazio per aree verdi, costruiamole sopra la città. Questo devono aver pensato gli architetti promotori di uno dei progetti più originali del verde urbano.

parco-ny-da-corriere-casaLa ricerca dell’equilibrio tra ambiente costruito e ambiente naturale, che spesso viene fatta in architettura (famosi in questo senso sono i tetti-giardino da Le Corbusier in poi), presenta ora un’idea alquanto orginale, che è in fase di realizzazione a New York.

Si tratta del recupero e riutilizzo di un tratto di linea ferroviaria sopraelevata ormai dismessa, che diverrà appunto parco, una sorta di corridoio verde urbano in mezzo ai grattacieli e, appunto, sopraelevato. L’idea che darà un nuovo spazio verde di socialità a Mahattan è degli architetti Diller Scofidio e Renfro in collaborazione con il gruppo Field Operations (la cui filosofia, tratta dal sito world-architects.com è “Whatever the scale and scope, our practice looks to respond with imagination and clarity to the unique circumstances of each project, crafting ecologically smart and culturally significant built works of lasting distinction”).

Sul progetto dell’higline park a New York vedi l’articolo e la galleria fotografica sulla sezione Casa del Corriere.it

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Le città italiane si stanno evolvendo tra non luoghi e superluoghi. Almeno questa sembra essere l’immagine che emerge dal rapporto 2008 della Società Geografica Italiana, intitolato “L’Italia delle città. Tra malessere e trasfigurazione”. I due termini usati sono di per sé già molto indicativi.

societa-geografica-italianaMentre da mesi ormai stiamo parlando di città in crisi e delle ricadute della crisi economica nella vita delle città, questo studio sullo stato delle città in Italia non ci dà certo segnali incoraggianti. Almeno questa è l’interpretazione che ne do io, rispetto ad alcuni elementi che vi accenno qua sotto.

Il rapporto (anche se, ammetto, non ho avuto ancora l’opportunità di leggerlo nella sua interezza) conferma una tendenza chiara da alcuni anni, e cioè che l’inurbamento del pianeta, e anche del nostro paese, è un processo ormai inarrestabile: la città e “l’urbanità” è caratteristica della contemporaneità, tanto che si parla di ambiente urbano anche per molte parti del territorio che non sono città.

L’altro aspetto che emerge è che l’evoluzione più recente delle città italiane è un’evoluzione prevalentemente di non-luoghi, o di superluoghi, come si è iniziato a chiamarli adesso. (altro…)

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